DANIELA VALZER, presentazione dei Pasquali 2001

"Far consignatione nel giorno della Sancta Pascha a li vicini un agnello d'un peso bono sufficiente, ben cotto et arostito". Tra il "sonar la campana a tutte l'Avemarie" e le altre numerose incombenze che - nel 1606 - si elencano a carico del custode della chiesa di San Lorenzo di Oga, c'è anche quella di provvedere alla cottura dell'agnello pasquale da distribuire in piazza la mattina di Pasqua. L'attestazione, rinvenuta dallo storico Ilario Silvestri tra le carte dell'archivio parrocchiale di Oga, è importante perché è la più antica che si possieda sull'antichissima tradizione dei Pasquali e perché per trovare un'altra citazione dobbiamo spostarci più di un secolo avanti, sino al 1722.
E' della cerimonia dei Pasquali, ormai prossima a ripetersi nella terra di Bormio, che - sostenuti dalle ultime scoperte del Centro di Studi Storici Alta Valtellina - vogliamo parlare. Però secondo una prospettiva diversa da quella  folkloristica, già nota a tutti. Si vuole dimostrare infatti come la tradizione dei Pasquali sia nata recuperando e reinterpretando un rituale arcaico, che affonda le sue origini nella più lontana notte dei tempi, e che ci costringe a risalire indietro negli anni, sino a quando l'Alta Valle era ancora popolata da popoli pagani, dediti all'agricoltura e all'allevamento.
Occorre una premessa: la cerimonia del Pasquale, oggi conservata nella sola "Terra Mastra", era praticata in ogni vicinanza del Bormiese. A segnarne la condanna a morte nelle onorate valli, fu la confisca dei beni ecclesiastici da parte del Regno d'Italia, nel 1868, che privò le chiese dei  fondi necessari per l'acquisto dell'agnello. In una delibera ottocentesca custodita nell'archivio di Premadio, si legge: "La fabbriceria di Premadio cessò nel 1870 di fare la dispenza dell'agnello pasquale che si costumava di dare al popolo il giorno di Pasqua siccome il regio demanio vendette tutti i benni delle chiese che erano intestati alle chiese, fra questi fu venduto il fondo di cui era appoggiato questo legato e non più fatto calcolo dal regio demanio di questo legato... d'altra parte il popolo cresciuto assai di numero e un montone venne ad essere poco per darne anche una piccola porzione a tutti. Così cessò la dispenza della carne d'agnello pasquale e non si fece più verun conto. Così sia".
A Bormio invece, dalle testimonianze documentarie e da quanto scrive Glicerio Longa all'inizio del secolo (in Usi e costumi del Bormiese, 1912), pare che - , a cavallo tra XIX e XX secolo - la costumanza della benedizione dell'agnello già arrostito e pronto per essere consumato sopravvivesse ancora, affiancata alla cerimonia - che finì poi con prevalere - della benedizione di un agnello vivo e graziosamente addobbato.
Torniamo al rituale più antico, quello della distribuzione dell'agnello arrostito a tutti i vicini, per notare innanzitutto che è identico a quello della Pasqua ebraica che Mosè ordinò di celebrare al popolo d'Israele dopo la fuga dall'Egitto (Esodo,12). La legge mosaica prescriveva che il primo mese di primavera ogni famiglia si procurasse un agnello senza difetto, maschio e nato nell'anno, da immolare al tramonto e che tutta l'assemblea della comunità di Israele, riunita, ne consumasse quindi la carne arrostita al fuoco. Il rito era praticato anche da altri popoli antichi. Certe tribù nordiche di pastori usavano per esempio sacrificare il primo agnello nato nell'anno, facendone colare il sangue sulla terra; la carne arrostita veniva poi mangiata in comune nei campi, lasciandone qualche pezzo per gli spiriti della terra che dovevano rigenerare le piante, le erbe e i cereali. Quasi sicuramente anche nel bormiese si praticavano riti simili. Erano anzi tanto frequenti e cari alle popolazioni  che il Cristianesimo - non riuscendo ad abolirli - li assimilò e fece suoi, interpretandoli però in modo nuovo. Ecco l'anello: secondo i pagani il sacrificio e il sangue rigenerano la terra, secondo i cristiani è Cristo, simboleggiato dall'agnello (agnus Dei), che con il sacrificio del suo sangue, rigenera e rinnova spiritualmente l'umanità, diventando fonte di vita per il mondo.
Il messaggio cristiano nel Bormiese convive a lungo accanto alle antichissime tradizioni pagane. Dell'antico sacrificio cruento, da celebrare davanti a tutta la comunità riunita, resta il rito del consumo comunitario dell'agnello, che ricorda l'eucarestia e Gesù che - nell'ultima cena - consegna ai suoi il pane fatto carne.
Anche la tradizione dell'addobbo dell'agnello ha un significato riconducibile all'antico rito pagano. Si sa che in tutti i popoli antichi, gli animali - prima d'essere condotti all'altare del sacrificio - venivano addobbati per essere ancora più graditi agli occhi di Dio. E questo potrebbe spiegare perché i Reparti facevano e fanno ancora a gara per portare in piazza l'agnello più bello, posandolo ora su una portantina di muschio, ora in braccio, ora in spalla, tutto infiocchettato e adornato a festa.
Quello dei Pasquali non è comunque l'unico rito cristiano che sopravvive nel Bormiese e riprende lontanissimi rituali pagani di conciliazione con la natura.
Restiamo alla settimana di Pasqua, ponendo l'attenzione sulla liturgia della benedizione del fuoco che si celebrava la mattina del Sabato Santo. Avveniva che, nel piazzale antistante gli edifici sacri, si bruciasse una grande catasta di legna e che il carbone benedetto dal sacerdote venisse raccolto dai contadini e sparso negli orti, nei prati e nei campi per ottenere un buon raccolto. Parte del carbone veniva anche portata a casa e mescolata con il fuoco domestico al  fine di scongiurare gli incendi. Siamo di fronte a un'interpretazione pagana del fuoco come simbolo ancestrale, di fecondità e di rigenerazione. Simbolo noto per altro agli antropologi e agli scrittori: si veda "La Luna e i Falò" di Cesare Pavese, il mito del ritorno alle origini, della purificazione. Per restare tuttavia nell'ambito delle tradizioni locali, possiamo aggiungere all'elenco "li flama de San Lorenz", che ogni estate si accendono a Oga nella notte del 10 agosto sul terrazzo naturale di Tadè. Gli storici escludono che, con questi falò notturni, si voglia  evocare soltanto il fuoco che straziò nel suo martirio il santo, patrono di Oga. Piuttosto ritengono che questa consuetudine, gelosamente custodita dalla gioventù di Oga, ricordi il falò che, anticamente, concludeva il raccolto delle messi. Oltre ad essere un rito di rigenerazione della natura dopo un ciclo vegetativo, quello "de li flama" era anche un rito di rinnovamento per la collettività, in quanto si accompagnava a una festa notturna dei giovani, che è una rilettura di rituali orgiastici, dionisiaci, in cui si riattualizzava il caos primordiale precedente la creazione. Quanto ai piccoli falò che ancora si accendono nella stessa notte in paese, sono forse un'eco dell'incenerimento dell'ultimo covone che, in tempi lontanissimi, al termine della mietitura veniva bruciato per spargere sul campo le sue ceneri al fine d'accrescerne la fertilità.
Non diverso è il discorso sulle sei miracolose fonti di San Carlo. L'attribuzione di qualità magiche, di bontà e fertilità, risalirebbe infatti alla notte dei tempi e sarebbe di gran lunga precedente all'intitolazione ad un Santo che "è da inserire nella pastorale della chiesa - scrivono gli storici del Centro Studi Storici Alta Valtellina - soprattutto in epoca controriformista, tesa a combattere, non solo il culto delle acque ma ogni forma di paganesimo: le credenze che non potevano essere estirpate, o perseguitate, venivano cristianizzate e alle divinità pagane si sostituivano divinità o santi cristiani, gesti e rituali pagani venivano surrogati da gesti e rituali appena esteriormente cristiani". Ne seguì che davanti alle fonti, prima d'approssimarsi a bere, i passanti iniziarono a farsi il segno della croce. Le attese di chi si aspergeva restavano tuttavia quelle antiche. Le donne in particolare salivano fin lassù, a piedi nudi, per ottenere la fertilità. E' significativo anzi che sul Masucco, dove esisteva una delle fonti, la credenza popolare finì con il trasferire i poteri dell'acqua di San Carlo alla vicina chiesetta di San Colombano, attribuendo al monaco irlandese poteri di guarigione contro la sterilità che non sono documentati altrove.
 
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